23 Ott “Amici Miei”, elogio delle zingarate
Posted at 12:45h
in Cinema

È il luglio del 1975 quando arriva nelle sale il capolavoro di Mario Monicelli, “Amici miei”, uno straordinario ritratto corale e forse uno degli ultimi, alti capitoli della grande commedia all’italiana, capace di essere beffarda e intelligente, di far ridere e insieme ferire. Quegli anni segnano una svolta per l’Italia: il fermento culturale e sociale degli Anni ‘60 si è incrinato e gli Anni ’70 si aprono in un clima di crescente incertezza e di tensioni politiche e sociali. Il film avrebbe dovuto essere diretto da Pietro Germi, che venne a mancare pochi mesi prima dell’inizio delle riprese. Secondo alcuni, il titolo prende ispirazione da una sua frase pronunciata dal grande regista ligure in punto di morte: “Amici miei, ci rivedremo, io me ne vado”.
Il film disegna con raffinata maestria cinque personaggi che sono ormai parte integrante della storia del nostro cinema: l’architetto Melandri (Gastone Moschin), il Conte Mascetti (Ugo Tognazzi), il giornalista Perozzi (Philippe Noiret), il barista Necchi (Duilio Del Prete) e il primario Sassaroli (Adolfo Celi). Sono amici di lunga data, uniti non da affetti scontati, ma da una complicità scanzonata e da un bisogno profondo di ridere della vita, prima che sia la vita a ridere di loro. La trama si sviluppa attraverso una serie di episodi, simili ai capitoli di un romanzo picaresco, in cui i protagonisti si ritrovano per dare vita alle loro celebri “zingarate”: scherzi, beffe e fughe momentanee dalla realtà che sfidano il conformismo, l’ipocrisia e il peso inesorabile del tempo che passa. Da queste “zingarate” prendono forma espressioni entrate nel linguaggio comune, come la celebre “supercazzola”, simbolo di un umorismo surreale e irriverente, tanto assurdo quanto liberatorio.
Dietro la brillante comicità, “Amici miei” – disponibile su Apple TV – nasconde un’opera amara e profondamente umana. Quegli uomini che ridono a crepapelle sono gli stessi che, con fatica, affrontano la vecchiaia, i fallimenti e le perdite. Persone comuni che combattono le paure con l’arma più semplice e potente: la risata. In un’Italia che ha perso la leggerezza, loro la ritrovano, anche solo per qualche ora, quasi per sfida. “Amici miei” è questo: Un’elegia sulla fuga, un inno all’amicizia come ultimo rifugio davanti alle fatiche dell’esistenza, capace ancora oggi di parlare al nostro bisogno di non cedere al cinismo, al tempo che passa, alla routine che tutto appiattisce. Monicelli ci lascia un’opera che sfiora la perfezione e che ci ricorda con forza che, forse, per restare vivi davvero, serve solo concedersi ogni tanto una zingarata..