Siani e il coraggio di scrivere

 

 

C’è un ragazzo di ventisei anni che sogna di fare il giornalista. Non per fama, ma per giustizia. Si chiama Giancarlo Siani, scrive per “Il Mattino” come praticante e sogna un contratto vero. Ma più del contratto, cerca la verità. È il 1985, e mentre l’Italia balla al ritmo dell’edonismo e della corruzione, Giancarlo indaga su camorristi e politici collusi, mettendo per iscritto ciò che molti fingono di non vedere. La sera del 23 settembre 1985, a soli ventisei anni, viene ucciso sotto casa, nella sua Citroën Mehari verde, con dieci colpi di pistola. Diretto da Marco Risi e scritto da Andrea Purgatori e Jim Carrington, “Fortapàsc” (2009) racconta gli ultimi quattro mesi di vita di Giancarlo Siani, i più intensi e #coraggiosi, in cui il giovane cronista affronta la solitudine, la paura e l’orgoglio di chi sceglie di non piegarsi.
Giancarlo Siani – interpretato da Libero De Rienzo, che per questo ruolo ottenne due nomination ai David di Donatello e ai Nastri d’Argento – lavora tra Napoli e Torre Annunziata, la Fort Apache campana, una città ferita dal terremoto e dominata dal clan dei Gionta. Lì la camorra non è un’ombra: è il sistema. Governa cantieri, politica e quartieri popolari, e chi prova a raccontarla rischia di sparire nel #silenzio. Ma Siani non si ferma. Indaga, verifica, scrive. Trasforma la penna in un’arma contro l’omertà. Quando pubblica un articolo in cui rivela, con lucidità e coraggio, che l’arresto di Valentino Gionta non fu un trionfo dello Stato ma il prezzo di sangue pagato dai Nuvoletta per chiudere una guerra di camorra, segna il proprio destino. Aveva osato svelare i patti segreti tra clan e i legami oscuri con la politica: quelle quattromila battute su “Il Mattino” bastarono per condannarlo a morte.
“Fortapàsc” – disponibile su Rai Play – restituisce la forza morale e la solitudine di un giovane uomo che, in un’Italia che preferiva voltarsi dall’altra parte, scelse di guardare in faccia la realtà e di denunciarla. Il film di Marco Risi mostra un giornalismo che non si limita a osservare, ma che resiste, che si espone, che considera la verità un dovere civile prima ancora che professionale. Siani non aveva una scorta né protezioni. Aveva solo la sua coscienza, e un’idea semplice: che raccontare ciò che accade è l’unico modo per cambiare le cose. “Perché lo faccio? Perché è il mio lavoro. Perché l’ho scelto. Non perché mi senta particolarmente coraggioso nel farlo bene. È che la criminalità, la corruzione non si combattono soltanto con i carabinieri. Le persone per scegliere devono #sapere, devono conoscere i fatti. E quello che un giornalista giornalista dovrebbe fare è questo: informare”.
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