Alberto Sordi e la metamorfosi di “Un borghese piccolo piccolo”

 

 

 

Nel 1977, mentre l’Italia usciva dall’euforia del boom economico e sprofondava nel clima cupo degli anni di piombo, arrivò sul grande schermo “Un borghese piccolo piccolo” di Mario Monicelli, tratto dall’omonimo romanzo di Vincenzo Cerami. Pier Paolo Pasolini, che lesse il manoscritto prima della pubblicazione nel 1976, lo definì “un bellissimo romanzo neo #crepuscolare, sciatto e atroce”, riconoscendovi la manifestazione di quella che lui definiva “mutazione antropologica”: la trasformazione degli italiani in consumatori omologati, l’erosione delle culture popolari e l’ascesa della piccola borghesia come modello dominante, in un Paese dove il senso di comunità e di responsabilità collettiva si è ormai dissolto.
Monicelli porta sullo schermo non solo la trama, ma soprattutto il cuore morale del libro, restituendo l’inquietudine che Pasolini aveva colto e sancendo, al contempo, la fine della commedia all’italiana: i personaggi che per anni avevano incarnato l’italiano medio smettono di essere #caricature benevole e si trasformano in specchi impietosi della realtà. E non è un caso che sia stato affidato ad Alberto Sordi il ruolo del protagonista, Giovanni Vivaldi, modesto impiegato statale che vive nel mito del posto fisso per il figlio Mario: un mondo fatto di raccomandazioni, corsie preferenziali, di piccole strategie quotidiane per sopravvivere dentro un sistema che non premia il merito ma l’appartenenza. La morte del figlio, ucciso accidentalmente durante una rapina, trasforma Vivaldi da obbediente borghese a spietato vendicatore: rintraccia l’assassino e lo tiene prigioniero, sottoponendolo a una lunga e crudele tortura psicologica.
“Un borghese piccolo piccolo” ritrae un’Italia in cui la violenza non è più eccezione, ma possibilità quotidiana, dove la giustizia appare lenta e inefficace e l’uomo comune sente il bisogno di supplire allo Stato con le proprie azioni. Non attraverso la ribellione politica, ma con un feroce ripiegamento #individuale. In questo contesto, il film diventa lo specchio della “mutazione antropologica” descritta da Pasolini: italiani trasformati da membri di una comunità in individui isolati e conformisti, pronti a difendere i propri interessi da soli, in un racconto che riflette la solitudine e la frattura della società italiana degli anni di piombo.
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